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L’Italia del degrado nei dipinti di Telepatia

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di Luigi Gaiella, Il Fatto Quotidiano

Dalla dimensione suburbana a quella subumana. Negli ultimi trent’anni si è compiuto un salto di qualità etico ed estetico nel concetto di periferia. Se ne occupa “T

elepatia” di Oliviero Beha (Rai Tre, sabato, 23.40) presentando, fra altre testimonianze documentarie, alcune immagini del bellissimo “Ritratti abusivi” del filmaker Romano Montesarchio, che lo stesso conduttore definisce un possibile “schema della trasmissione”.

Il Villaggio Coppola, detto anche Parco Saraceno, nacque a metà degli anni 60 sulla via Domiziana nei pressi di Castel Volturno. Prometteva d’essere una “superba città giardino” e vi trovarono alloggio fino a venti anni fa militari della Nato. Ora è abitato da alcune decine di famiglie abusive e rappresenta il simulacro dell’idea stessa del degrado. Qui tutto è scheggiato, dall’umanità allo spazio urbano. Con le case ferite da bombardamenti mai avvenuti. Edifici sbrecciati come reperti archeologici. Umidità alle pareti, immondizia, calcinacci. Una residuale umanità vi sopravvive brancolando fra vie deserte. Oltre “Brutti, sporchi e cattivi”. Come in uno spettrale quadro di De Chirico contaminato da Cinico Tv.
Luogo di spaccio e di avanzi di camorra, che compone un affascinante ritratto – nell’orrore sublime che trasmette – di una fisica e metafisica marginalità.

In studio Ninetto Davoli rimpiange la borgata romana dei suoi anni d’infanzia, cara a Pasolini. E Gian Antonio Stella racconta di come il sindaco di Castel Volturno, dopo l’assassinio dei sei immigrati del 18 settembre del 2008, avesse parlato della sua città nei termini “pazzeschi” di una italica Malibù, se solo “non ci fossero stati la camorra e gli immigrati”. La stessa Malibù dello slogan “La vita è troppo breve per vivere altrove”. Quel sindaco che spacciava Castel Volturno – per il giornalista del Corriere “uno dei luoghi più brutti del pianeta” – con la californiana Malibù è un’altra immagine della moderna periferia, tutta mentale questa, nella quale pateticamente una roboante politica progressivamente ci confina. Così, offesi da spregiudicati costruttori che hanno cementificato l’Italia, edificando “città giardino”, fatiscenti prima ancora di invecchiare, sembra quasi lecito – ma Beha lo dice sottovoce, anche data l’ora – di dover rimpiangere le case popolari del fascismo, “quando si stava peggio”, in cui le costruzioni, almeno, possedevano razionalità e dignità.


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